Catalogo Cambialamore

camere, le teste decapitate dei soldati israeliani, raccolte in un sacco di plastica… Sì, se ci penso bene, il sacco di plastica è diventato il simbolo più eloquente dei nostri tempi, come quello sulla testa del padre iracheno fotografato da Bouju, come quelli dei prigionieri di Guantanamo e dei torturati di Abu Ghraib. Gli Americani l’hanno introdotto perché metterlo sulla testa era più facile che bendare gli occhi. In realtà, come sostiene Deleuze: “Occultare la faccia del prossimo è la prima condizione per interiorizzare il suo assassinio come una cosa naturale”. La foto del prigioniero iracheno incappucciato, messo su un piedistallo precario, con le braccia aperte e collegato a dei fili elettrici, che qualcuno dei soldati americani ha scattato come ricordo di guerra, ha fatto il giro del mondo. Probabilmente è stata l’immagine più riprodotta, dopo la sequenza dell’attacco dell’11 settembre. L’ho vista su tutti i giornali, nelle forme più diverse. Il Diario l’aveva messa in copertina, elaborandola al computer così da sembrare un quadro di Andy Warhol, con il titolo a lettere cubitali: “Il fantasma della libertà”. Un altro giornale l’ha trasformata in una vignetta satirica: “L’opinione pubblica è sconvolta”. “Anche io…” – sentenziava il fumetto che usciva dal cappuccio. La cosa però che mi ha impressionato maggiormente non era la facilità con la quale quell’immagine assolutamente anonima diventava un’icona mediale ed un segno semantico, ma il fatto che guardando le fotografie terrificanti delle torture di Abu Ghraib, la gente non ci credeva. “Non è possibile” – dicevano tanti, “è una messinscena, sono foto truccate”… Ecco l’inganno dello specchio piatto e bidimensionale del mondo che ha il duplice potere di produrre i documenti e di creare opere d’arte. Ecco il succo della poltiglia mediatica che “bloba” la morte, le sofferenze, le umiliazioni, l’orrore, e fa diventare 47

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